Vajont e il dovere della memoria: interviste a Renato Migotti e Paola Zambelli | QUOTA

Scritto da: Sebastiano Frollo, autore di “Andata e ritorno – Storie di montagna”

La diga del Vajont l’ho sempre percepita come un fantasma piantato in una gola strettissima. Un qualcosa che c’è, è lì, come se fosse naturale. Uno sbarramento a doppio arco colossale, all’epoca il più alto di tutti, che separa due mondi. Nella valle del Piave il riferimento è Longarone, con i suoi centri abitati limitrofi. Pirago, Villanova, Rivalta, Faè, Fortogna, Castellavazzo, Codissago, Provagna e Dogna. Nella valle del Vajont dominano invece Erto e Casso, accompagnati da borghi rurali come San Martino, Le Spesse, Frasègn, Il Cristo, Prada, Marzana, Ceva, Pineda.

Contesti completamente differenti. Da una parte la modernità di Longarone, dall’altra le tradizioni. La diga separava – e separa ancora – storie e memorie di genti diverse. Quando le industrie arrivarono nella Valle del Piave, a Erto e Casso si viveva di artigianato, agricoltura, pastorizia. 

Per queste puntate dedicate al 60esimo anniversario, da quel tragico 9 ottobre 1963, sono partito da lontano. Non ero neanche sicuro di partire a dire la verità. Ho chiesto consiglio alla Pro Loco di Longarone, affinché tutto quello che è stato registrato non potesse essere “di troppo”. Mi è stato suggerito di continuare ed eccoci qua. 

L’obiettivo di questi episodi è quello di “non parlare del Vajont” in merito ai fatti, ai morti, alla tragedia. Se n’è già parlato molto, di cose ne sono già state scritte tante e non voglio aggiungere altro. In questo 2023 però, il Vajont, mi ha portato più volte sulle tracce della memoria e sui grandi valori che devono essere tramandati.

Li sentirai in entrambe le interviste che proporrò. Solidarietà, delicatezza, silenzio, supporto.

Renato è nato in Val di Zoldo prima di trasferirsi a 9 anni a Longarone. Il 9 ottobre 1963 aveva 16 anni. E’ uno dei sopravvissuti a quella notte. Architetto, il suo studio è in pieno centro a Longarone. In linea d’aria, di fronte alla diga. Renato guida la fondazione “il futuro della memoria”, appassionato di montagna arriva in vetta al Monte Bianco e quasi su quella del Cervino. Gli sono mancati 200 metri, poi a quelle quote – insieme alle guide – ha deciso di tornare indietro. Insomma, 76 anni portati alla grande. Una cosa su tutte mi ha stupito: la forza di un uomo che ha saputo ripartire. In un mondo diverso, stravolto in pochi minuti da un disastro epocale.

Paola invece nel 1963 non era neanche nata. Ora è una maestra. Moderna e con una penna tagliente. Paola parla di memoria a un pubblico variopinto, con un’attenzione particolare a chi, di anni, ne ha meno. L’ho incontrata per un’intervista in merito al suo nuovo elaborato “La diga più alta del mondo – Vajont 1963”. Devo questa intervista ad Annamaria Canepa che ringrazio e di cui – tra poco – ascolterai la voce. Editando la puntata con Paola mi sono reso conto di come sia potente la conservazione attiva della memoria.

A tema Vajont mi ero ripromesso di scrivere qualcosa su tutto ciò che è andato perduto, ancora prima dell’invaso. Specialmente nella vallata Erto-Cassana. Perché se nella Valle del Piave la diga era motivo d’orgoglio, dall’altra parte la creazione di un lago artificiale ha cancellato – ancor prima della frana del Toc – realtà secolari.Sommerse inesorabilmente dall’acqua. Il primo contatto l’ho avuto con Luigi, un signore di 83 anni incontrato in un sentiero alle porte di Claut. Siamo nel versante Erto-Cassano.

Ho provato a farmi raccontare cosa ci fosse prima del Vajont, senza rendermi conto di aver posto – precipitosamente – la domanda. Mi stavo rendendo conto – per la prima volta da quando provo a farmi raccontare qualcosa – di essere stato troppo precipitoso. Non avevo valutato il dolore della memoria, risultando indelicato. Ero andato dritto al punto. 

Eppure avrei dovuto saperlo, la diga del Vajont ha un’aura tutta sua che si disperde a valle e a monte. Sono zone silenziose, persino nei boschi che conducono in cima al Toc sembra che non vi siano rumori. Spezzano questa quiete soltanto i rumori di autovetture e motociclette smistate – a Longarone – in vallate diverse e che – dal paese – risalgono strade e gallerie verso la sommità della diga.

Frequentando queste zone, mi ha sempre colpito la discrezione nella memoria delle vittime.

Ci sono bandierine che sventolano in ricordo delle piccole vittime, c’è un cimitero monumentale – e con tratti che sanno di un oriente lontano – nascosto a Fortogna, c’è un’aiuola a testimonianza della solidarietà del popolo italiano in centro a Longarone. Sul Toc, in cima al Toc, non ci sono croci di vetta imponenti. C’è una croce in legno, piccola e rudimentale.

Poi –  e sembra fatto apposta, come a dire “vai a vedere, non fermarti alla croce, scoprimi” – c’è una Madonna nascosta nei pini mughi proprio vicino alla cima del Toc. Alla base una fotografia di Tina Merlin, giornalista de “L’Unità” che ha combattuto violenze, espropri e autoritarismi della SADE. 

Una che dava fastidio, tanto fastidio, ai poteri forti.

Entrambe, guardano dall’alto Longarone. Sembrano vegliare. La Madonna prega con le mani giunte. Un’immagine da brividi. Dettagli, qua e là. Da interpretare, da ricercare.

Perché quel disastro non sia soltanto un disastro ma un monito per la conservazione attiva della sua memoria. E proprio la memoria è diventata il fulcro di questi episodi.

Renato Migotti – in uno dei suoi passaggi –  riflette su come la memoria debba essere condivisa con un taglio innovativo, affinché il Vajont e tutti i valori che ha lasciato non vengano erosi dal tempo. 

Ritengo che Paola Zambelli, a prescindere dal libro, abbia questa capacità. E nella sua intervista ti porterà alla scoperta di memorie e testimonianze che l’hanno guidata nell’elaborazione de “La diga più alta del mondo – Vajont 1963”. La storia del Vajont parte da lontano e di materiale valido ce n’è veramente molto.

Su tutti il libro “Sulla pelle viva di Tina Merlin” e il conseguente monologo datato 1993 di Marco Paolini, proprio sulla diga. Un punto di svolta per questa storia.

Ma il Vajont comincia dall’abbandono di Vallesella per poi passare sulla vita di Arcangelo Tiziani a Pontesei nel 1959. Arcangelo fu la prima vittima causata da un’ondata anomala in un impianto SADE. Potrai ascoltare questa storie proprio qui, se cerchi la serie “Prima del Vajont” dalla 38 alla 40. Avvenne 4 anni prima della frana del Toc, a una distanza di circa 14 km. 

Ti lascio a Renato Migotti e Paola Zambelli. Due episodi che si concentrano sulla Valle del Piave. Sulla valle del Vajont contribuirò io nella puntata successiva a quella di Paola Zambelli.

Sebastiano Frollo di “Andata e ritorno – Storie di montagna”